Diabete, un’epidemia da quasi 300 milioni di casi
Ceriello (Amd): “Oggi uguali aspettative di vita dei soggetti sani”
Il diabete è una patologia sempre più diffusa, ma al tempo stesso sempre più facile da trattare, grazie alle nuove frontiere della medicina, che riescono ormai a garantire una durata e una qualità di vita uguali a quelle di una persona in salute. Ne abbiamo parlato con Antonio Ceriello, professore e direttore del dipartimento di ricerca su “Diabete e malattie cardiovascolari” dell’Institut d’investigacions biomèdique August Pi i Sunyer (Idibaps) di Barcellona in Spagna e presidente di Amd, l’associazione che riunisce in Italia oltre duemila diabetologi, coordinando la ricerca e l’assistenza al paziente, promuovendo standard qualitativi di trattamento sempre più elevati.
Presidente, sotto il nome diabete in realtà troviamo patologie diverse, cosa li accomuna e quali sono le cure al giorno d’oggi?
“Sì, in realtà quando parliamo di diabete dovremmo farlo al plurale, è infatti una galassia di disturbi e patologie differenti. Ciò che le accomuna è l’iperglicemia, cioè l’eccesso di zuccheri nel sangue. Le forme più diffuse sono due: il diabete di tipo 1, noto anche come “giovanile”, e quello di tipo 2, conosciuto come “diabete dell’adulto” o “non insulino dipendente”. Nel primo caso c’è una totale assenza di insulina, perché avviene una progressiva e definitiva distruzione delle isole di Langerhans, le cellule del pancreas che producono l’ormone in questione. Nel secondo caso, invece, può anche esservi una buona quantità di insulina ma che agisce male, lasciando innalzare comunque il tasso glicemico”.
C’è quindi una netta differenza tra le cause?
“Il tipo 1 è sostanzialmente una malattia autoimmune e si manifesta tra l’infanzia e l’adolescenza, il tipo 2 insorge in età più avanzata ed è dovuto all’eccessivo consumo di dolci e, più in generale, si accompagna a un eccesso di peso. È pur vero, però, che oggi le differenze sono sempre più sfumate: abbiamo giovani obesi che presentano diabete 1 e soggetti relativamente giovani che riscontrano il diabete 2″.
È cambiata la malattia in questi anni?
“No, la malattia è sempre la stessa, ciò che abbiamo affinato in questi anni sono gli strumenti diagnostici, che riescono, per esempio, a identificare la patologia anche in presenza di segnali che prima venivano trascurati”.
Qui in Italia qual è la forma di diabete più diffusa?
“Decisamente il tipo 2, non solo in Italia ma nel mondo: il 90 per cento dei casi di diabete è di questo tipo. Da noi è più presente nelle regioni del sud, forse per lo stile alimentare più ricco di carboidrati e dolci. Il tipo 1 è molto diffuso in Finlandia e, nel nostro Paese, in Sardegna. Questo lascia pensare che i fattori genetici incidano particolarmente sul tipo giovanile”.
L’ereditarietà è comunque un fattore importante anche nel diabete dell’adulto?
“Certamente, ma questo non ci deve spingere a rassegnarci e attenderne la manifestazione, anzi proprio in presenza di fattori ereditari dobbiamo prestare maggiore attenzione alla prevenzione, in particolare all’alimentazione e allo stile di vita, evitando il più possibile la sedentarietà”.
È vero che questa patologia si erediti solo per via matrilineare?
“No, la linea ereditarietà può essere più complessa, quindi l’avere soggetti diabetici nel proprio albero genealogico deve comunque mettere in allerta“.
Quante persone colpisce oggi il diabete?
“Consideriamo che nel 1985 i soggetti diabetici nel mondo erano complessivamente 30 milioni e nel 2010 si sono quasi decuplicati, arrivando a quota 285 milioni. Secondo le proiezioni della Federazione medica, nel 2031 la quota salirà a mezzo miliardo. Una vera epidemia, che però, da un canto, non deve preoccupare quanto un tempo”.
In che senso?
“Nel senso che in questi decenni, anche grazie alla presa di consapevolezza della serietà della malattia, si sono perfezionate nuove cure. Ad esempio sono state sviluppate insuline a velocità diversa a seconda dei bisogni del paziente, poi per il diabete giovanile sono stati sperimentati device che sono una sorta di pancreas artificiali, che monitorano i livelli glicemici e cedono l’insulina di cui l’organismo necessita. Per il tipo 2 sono stati messi a punto nuovissimi farmaci che agiscono diversamente, già pronti a entrare sul mercato, anche se probabilmente in Italia si dovrà attendere ancora qualche anno”.
Oggi quindi si può vivere bene pur essendo diabetici?
“Non solo bene, anche a lungo: un paziente diabetico, ormai, se si cura con la dovuta attenzione e si affida a un diabetologo specializzato, ha una aspettativa di vita, sia in termini di durata che di qualità, del tutto paragonabile a quella di un soggetto sano“.
C’è chi non va dal medico?
“Nonostante nell’ultimo decennio sia cambiata la percezione della malattia da parte dell’opinione pubblica, il diabete è ancora oggi una di quelle malattie che si tendono a trascurare, così il paziente si affida semplicemente al medico di famiglia o, peggio, prova ad autogestirsi col fai-da-te, andando incontro a complicanze di ogni tipo e di diverso grado di pericolosità. Benché il diabete, con le eventuali complicazioni, possa coinvolgere vari piani della salute, noi, come associazione, sosteniamo il ruolo unico del diabetologo. La prima cosa è valutare in tempo i segnali che il corpo ci invia”.
Ecco, quali sono i campanelli d’allarme cui bisogna dare ascolto?
“La perdita eccessiva di peso, come pure l’eccesso di urine e il conseguente aumento della sete sono spesso i segnali di una possibile presenza di diabete giovanile. L’individuazione del tipo 2 è invece più complessa e avviene spesso in maniera casuale, in presenza, per esempio, di un forte stimolo a mangiare o a seguito di complicanze dovute proprio all’aver trascurato la malattia, come infarto o infezioni frequenti. Una visita specialistica potrebbe agire in tempo”.
Quanto è importante aggredire in tempo il diabete?
“Importantissimo. Col grande progetto Amd “Subito!” abbiamo sottolineato il fatto che la tempestività è la prima cura per il diabete: la via giusta non è fare scendere l’emoglobina glicata quando già si è assestata su valori scadenti, ma intervenire con intensità già al momento della diagnosi, per raggiungere fin dai primi mesi il target di buon compenso previsto dagli standard italiani di cura. Si crea in questo modo una memoria metabolica positiva, un po’ come per le batterie a memoria di carica, che garantisce un ottimo controllo della malattia nel tempo”.
Dunque precocità della diagnosi e tempestività nell’intervento, è tutto qui?
“In realtà siamo andati oltre, adesso ci stiamo muovendo verso una personalizzazione dell’approccio, vista la complessiva e variabilità della malattia da soggetto a soggetto. Alla tempestività va combinata l’appropriatezza: trattare subito e trattare bene“.
Per maggiori informazioni: www.aemmedi.it.
ringrazio per le informazioni. poi da lassu’ vi diro’ se sono servite a vivere come i sani se
il soggetto segue bene la cura. buon lavoro.