“Porgi l’altra guancia”, il cervello ringrazia
Perdonare fa bene alla salute
La religione, non solo quella cristiana, ce lo dice da almeno duemila anni: perdonare fa bene innanzitutto a noi stessi, non farlo, invece, permette a chi ci ha fatto del male di continuare a farcene anche a distanza di tempo. Del resto a chi ci ha offeso in un modo o nell’altro sarà del tutto indifferente il nostro rancore come del resto il nostro perdono: perdonare è quindi in definitiva un atto d’amore verso noi stessi, che prescinde dall’altro e da eventuali sue richieste di perdono e che significa, in definitiva, sospendere il giudizio. Questa, in due parole, l’essenza del messaggio cristiano. E la scienza? Cosa ci dice la scienza in proposito?
Potrebbe anche non dire nulla, del resto è il terreno della morale. Eppure sembra un grave errore pensare che l’etica non possa avere influenza sulla nostra salute: perfino la scienza medica, senza necessariamente dover scomodare discipline olistiche, sembra che sia arrivata a comprenderlo. Almeno stando al lavoro pubblicato su “Frontiers in human neuroscience” e condotto da alcuni ricercatori dell’università di Pisa guidati da Pietro Pietrini e finanziato dalla Campaign for forgiveness research dell’americana John Templeton Foundation. Lo studio ha analizzato attraverso la risonanza magnetica la reazione cerebrale di alcuni soggetti sottoposti a stimoli ben definiti. Veniva loro chiesto di immaginare e immedesimarsi in scenari di eventi in cui si subiva un torto, come essere traditi dal proprio partner o subire un furto, e rispondere col perdono o col risentimento, progettando magari una vendetta. Alla fine di ogni scenario i soggetti coinvolti davano un punteggio alle proprie capacità evocative e al livello di sollievo provato in seguito al perdono.
La conclusione è stata che perdonare fa stare meglio, come se sciogliesse dei nodi a volte troppo ingarbugliati, altrimenti destinati a stringersi sempre di più. A livello emotivo, si è dunque sperimentato uno stato di liberazione, accompagnato da altri stati emotivi positivi. A livello fisico, il perdono ha messo in connessione varie aree del cervello altrimenti non collegate, in particolare la corteccia prefrontale dorsolaterale, la corteccia del cingolo, il precuneo e la corteccia parietale inferiore. Insomma, sembra che vi sia una relazione, perfino di causalità, tra morale spirituale, emozioni, psiche e livello fisico.
Un punto di svolta che potrebbe attribuire alla religione una funzione pratica: non più (o non solo) una guida per salvare la propria anima o un mezzo per soddisfare il proprio bisogno di dare un senso alla vita, bensì come strumento pratico per la propria salute spirituale, psicologica, emotiva e fisica: una salute a 360 gradi, dunque, vale a dire olistica. Non è dunque Dio che ci chiede di perdonare, per la sua gloria, ma semmai che ce lo suggerisce, per il nostro bene. Mente e cuore, finora barricati su fronti opposti, ora non solo si danno la mano, ma la prima si sottomette al secondo per trarne beneficio: il cervello riesce a trovare pace soltanto se dà ascolto al proprio cuore, alla spinta interiore al perdono, appunto. “Nel corso della storia – spiega Pietrini – il perdono è stato invocato dalla religione e da leader politici come la risposta moralmente corretta nei confronti di un’offesa. Il nostro studio ora indica che il perdono affonda le proprie radici nel cervello e che si configura come un processo cognitivo articolato che può consentire all’individuo di superare stati emotivi negativi tramite la rivalutazione in termini positivi di un evento“.
Gli studiosi hanno riconosciuto nella corteccia prefrontale dorsolaterale il luogo in cui il modo col quale percepiamo e razionalizziamo un evento e le sue conseguenze si traduce in un differente stato emotivo. Facciamo un esempio: immaginiamo di venire licenziati: possiamo ritenere ciò un’ingiustizia, limitandoci a mandare maledizioni all’indirizzo dell’ex datore di lavoro o del sistema, oppure affrontare la nuova condizione – si direbbe – “con filosofia”, in maniera propositiva, vedendola come occasione per un cambiamento e magari una crescita.
In quest’ottica ogni male può essere vissuto come un’opportunità, andando oltre il male in sé, che si tratti di una bocciatura, un fallimento, un’umiliazione, un incidente, un lutto o perfino una malattia, lo sanno bene i professionisti del self power che tengono corsi e scrivono manuali. Non tutti i mali vengono per nuocere o, quantomeno, da qualsiasi male possiamo trarne qualcosa di buono: cercare, sforzarsi di trovare il bene futuro non significa negare il male presente, ma superarlo. Se ci si sposta su questo punto di vista, il perdono diventa quasi automatico, può trasformarsi perfino in gratitudine, senza per questo scivolare nel masochismo, che è ben altra cosa, ovvero una tendenza tutt’altro che propositiva ma passiva, che invoca il dolore senza volerlo affatto superare, perché in esso trova gioia, seppure apparente. Va cercato un perdono attivo, dunque, ccapace di restituire energia e nuova forza alla propria vita.
Il perdono non implica necessariamente il giustificare chi ci ha arrecato del male, ma non può che passare dal comprenderne le ragioni, mettendosi nei suoi panni, meccanismo di immedesimazione nell’altro che avviene grazie all’attivazione del precuneo e della corteccia parietale inferiore, deputata all’empatia. Comprenderne le ragioni perfino quando dal nostro punto di vista sono sbagliate e non condivisibili, un perdonare il prossimo, cioè, “perché non sa quello che fa”. Non sempre si può minimizzare un male subito, non sempre è facile, a volte sembra quasi obbligatorio odiare, per offese tanto forti che lasciano il segno, eppure ciò non giova a noi stessi, ci fa rimanere legati, con un nodo sempre più stretto e sempre più simile a un cappio, a quel passato di cui vorremmo liberarci, solo lasciarlo andare può liberarcene davvero: più si tira con forza e più si stringe, più si allenta e più sarà facile scioglierlo. Cacciarlo equivale spesso a ricacciarlo nel profondo di noi stessi, darvi importanza, dedicarvi parte della nostra attenzione che esso non merita, delle nostre energie mentali, lasciarlo andare è invece cosa ben diversa, è ciò che si chiama appunto perdono. Quanto più un torto è ‘imperdonabile’, tanto più ci arrecherà del male se non lo lasciamo andare, se non lo perdoniamo, cioè.
In Oriente la capacità di perdonare è legata proprio al cervello, precisamente al cosiddetto “terzo occhio“, ovvero al sesto chakra, l’Agnya, un centro energetico situato a livello sottile sulla nostra fronte e corrispondente, a livello nervoso, al chiasma ottico. A livello fisico è quindi legato alla vista, alla ghiandola pineale e all’ipofisi. Ad esempio Sahaja Yoga, una disciplina olistica di matrice indiana, attribuisce ad esso la regolazione dell’attività mentale: se ostruito dal rancore e dalla tendenza a giudicare il prossimo o, al contrario, dalla mancanza di autostima, che poi è la tendenza a giudicare se stessi, si manifesterebbero emicranie, stanchezza, insonnia e altri problemi più o meno gravi in base all’entità del blocco. L’eliminazione di questa ostruzione, che passa ‘semplicemente’ dal perdono di sé e degli altri, porterebbe invece al superamento dei pensieri più ossessivi, alla pace mentale e la lucidità nell’intravedere le soluzioni ai problemi e nel prendere le decisioni: è quello stato che si ottiene in meditazione, che è descritto come “consapevolezza senza pensieri“, in cui non si evade dalla realtà ma anzi si è presenti più che mai, senza essere condizionati dai propri giudizi, dai pensieri, dai sensi di colpa o rancori legati al passato o dalle ansie proiettate sul futuro, per affrontare o semplicemente vivere, con serenità, il presente.