Etica della ricerca, l’appello della Fondazione Veronesi:
“Immorali i test di nuove cure su pazienti scelti a caso”
Machiavelli non avrebbe avuto dubbi, “il fine giustifica i mezzi“. Il motto a lui attribuito, dedotto dalle tesi espresse nel suo Principe, spesso si applica nella politica e in tanti ambiti della società, creando ogni volta dibattiti etici anche violenti. La questione assume un aspetto più emblematico, però, se si parla di medicina, la cui funzione primaria è quella di curare persone. Insomma, i pazienti sono sempre il fine della ricerca medica o possono essere anche il mezzo per consentire alla ricerca stessa di fare passi in avanti?
Se Machiavelli non avrebbe avuto dubbi, non ne ha neppure il Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi che, sul tema della randomizzazione, il metodo utilizzato per sperimentare nuove terapie, invita la comunità scientifica a un momento di riflessione. Il metodo è stato inaugurato nel 1946 e da allora, sostanzialmente, non è mutato. I pazienti vengono assegnati casualmente, appunto, a due gruppi distinti: al primo viene somministrato il nuovo farmaco, al secondo, invece, la terapia standard, di norma meno efficace. Qualora non ci fosse un medicinale già in commercio per quella patologia, si ricorre a un placebo o anche all’assenza di vera e propria terapia. Poi si confrontano i risultati, compresi gli eventuali effetti collaterali.
Il metodo, tuttavia, sebbene la consuetudine non faccia soffermare il mondo scientifico più di tanto su di esso, crea dei dubbi etici perché di fatto discrimina le persone, affidando la loro salute al caso e non alla loro scelta consapevole. Il Comitato, guidato dalla bioeticista Cinzia Caporale, responsabile della sezione romana dell’istituto di tecnologie biomediche al Cnr, ha preparato un documento ufficiale in cui formalizza questa perplessità: “La riflessione bioetica – si legge – non può trascurare o liquidare la controversia morale che emerge dai modelli random largamente in uso. Anche la consapevolezza che questi problemi esistono e che occorre tentare di trovare nuove soluzioni almeno parziali costituisce un obiettivo con profonda valenza morale da porre all’attenzione dei medici sperimentatori”.
Non una presa di posizione rigida, dunque, ma un invito a valutare se esistono alternative che possano spostare l’equilibrio fra esigenze scientifiche e tutela del paziente più verso quest’ultima. Cinzia Caporale si rende conto del peso della questione e anche delle possibili reazioni nell’ambito della ricerca: “Non era mai accaduto – spiega – che un organismo così autorevole e intellettualmente libero come la Fondazione creata da una figura come Veronesi, dove la bussola è la ricerca, ponesse in modo esplicito un tema grave, la casualità nella sperimentazione. È un grande dilemma: salvaguardare il metodo e allo stesso tempo gli individui, da non considerare come mezzo ma come fine“.
Il paziente assegnato al gruppo tradizionale perde l’opportunità di una cura potenzialmente migliore. Il Comitato suggerisce allora alcuni strumenti che possano stemperare alcuni dubbi. Un migliore utilizzo delle banche dati, maggiore tempestività nell’interruzione della sperimentazione, modelli biostatici innovativi, ma soprattutto evitare il ricorso al placebo.
Fanno parte del Comitato, fra gli altri, il biologo dello sviluppo Carlo Alberto Redi, il filosofo della scienza Telmo Pievani, il sociologo Domenico De Masi e Marcelo Sanchez Sorondo, dell’Accademia pontificia delle scienze, molto vicino a Bergoglio.