Il “ben-essere” è solo quello psicofisico o passa anche dalla dimensione etica e intellettuale? Alle radici della filosofia-in-pratica
Se leggiamo di una famiglia che, dopo anni di difficoltà, ha raggiunto “un certo benessere”, a quale aspetto della vita ci viene spontaneo riferirci? Quasi immancabilmente, all’aspetto economico. In un secondo momento, poi, è possibile che – approfondendo la questione – arriviamo a considerare anche l’aspetto psicologico: che aria si respira, che sentimenti circolano, che tonalità emotiva di fondo si avverte in quella determinata famiglia.
Soldi e serenità affettiva sono due elementi fondamentali per la vita umana: non è un caso che Aristotele sosteneva che non si può essere felici se si è troppo poveri (ma lui aggiungeva anche: o troppo ricchi) e se non si hanno alcune relazioni di amicizia sincera (con la propria moglie, innanzitutto, ma anche con alcuni dei propri simili). Tuttavia, se volessimo usare con maggiore precisione le parole, dovremmo chiamare la sicurezza finanziaria ben-avere e la serenità psicologica ben-sentire: ben-essere è qualcosa di diverso, forse di più profondo, certamente di più completo. Si riferisce, infatti, all’integralità della nostra persona in tutte le sue dimensioni: fisiche, psichiche, intellettuali e morali.
Per millenni la filosofia ha preteso il monopolio sul benessere dell’uomo e, sulla base di una considerazione a mio avviso fondata (intendo il primato dell’intelligenza e della volontà sulle altre potenzialità del soggetto), è pervenuta a una conclusione a mio avviso errata: che bastasse curare la dimensione spirituale dell’essere umano (la sua capacità di conoscere e di volere) per ottenere, automaticamente, il miglioramento del suo stato fisico e psichico. Per fortuna, con la nascita della medicina moderna, dal XVIII secolo i “fisiatri” si sono appropriati di ciò che li compete ed è caduta in disuso l’abitudine di chiedere a un filosofo la ricetta per attenuare il mal di denti o per contrastare un’epidemia di colera. Altrettanto fortunatamente, con la nascita della psicologia sperimentale prima e della psicanalisi dopo, fra il XIX e il XX secolo gli “psicoterapeuti” si sono appropriati di ciò che li compete in ordine ai sentimenti, alle paure, alle pulsioni, alle emozioni.
I progressi della medicina e della psicoterapia, forieri di vantaggi ormai irrinunciabili non solo per l’Occidente ma per tutto il pianeta, rischiano di essere vanificati da una svista colossale: voler rimpiazzare il monopolio, ormai tramontato, della filosofia con il proprio. Mi riferisco, in altri termini, al pericolo di ritenere che il benessere fisico e il benessere psichico (o, come sarebbe preferibile esprimersi, il benessere psico-fisico) esauriscano la interezza del benessere. Al pericolo di enfatizzare la dimensione terapeutica (soma-terapeutica e psico-terapeutica) sino al punto da trascurare, anzi da espungere del tutto, la dimensione intellettuale e morale.
Per evitare questo rischio, alcuni filosofi (Gerd Achenbach in Germania, Ran Lahav in Israele, Neri Pollastri in Italia…) hanno invitato altri colleghi (ormai, dopo trent’anni, sono coinvolte alcune migliaia di filosofi) ad aprire degli studi di pratica filosofica (in tedesco: Philosophische Praxis) e a mettersi a disposizione di quel pubblico di non-filosofi (di mestiere) che vogliano coltivare la propria saggezza e la propria etica. Queste pratiche filosofiche si svolgono in modalità svariate (colloqui a due o discussioni in piccoli gruppi), in luoghi svariati (salette raccolte o bar aperti), in tempi svariati (da un’ora a un week-end o a un’intera settimana): quando un singolo individuo o un gruppetto omogeneo chiede esplicitamente a un filosofo di riflettere insieme su una tematica precisa (la fedeltà coniugale, la competitività in una squadra…) si parla, nella lingua italiana, di consulenza filosofica.
Due precisazioni essenziali.
La prima: il benessere intellettuale ed etico (si potrebbe anche qualificare, se non si rischiasse l’equivoco con il linguaggio religioso, spirituale), che la filosofia può incentivare, non coincide necessariamente con il benessere psico-fisico. O, almeno, non immediatamente. Cercare il senso della vita, interrogarsi su ciò che è giusto e su ciò che non è giusto, possono inquietarci, metterci in crisi: come notava Hegel nell’Ottocento, la filosofia non è consolatrice a ogni costo. La filosofia può spezzare i falsi equilibri senza per ciò stesso fornircene di nuovi: getta, piuttosto, i presupposti perché, infranta la pace illusoria, ci si possa incamminare verso una pace autentica.
La seconda: la saggezza filosofica non si trasmette unilateralmente, esige la reciprocità. Il filosofo consulente non insegna, non consiglia, non risponde ai dubbi, meno ancora cura: è solo un alter ego con cui confrontarsi, con cui pensare insieme. Le pratiche filosofiche in generale, la consulenza filosofica in particolare, sono forme di con-filosofare. Ecco perché vanno nettamente distinte da varie versioni del counseling, anche dal counseling filosofico. Il counselor è un professionista che vuole aiutare un cliente, talora un paziente, utilizzando una disciplina: la pedagogia, la psicologia, la filosofia… Il consulente filosofico è prima di tutto ed essenzialmente un filosofo: egli non utilizza la filosofia in vista di obiettivi ulteriori (per quanto positivi come, ad esempio, il benessere psico-fisico del suo ospite), ma si presta a fare filosofia con lo scopo di fare filosofia. Stop. Che poi, facendo filosofia, l’interlocutore migliori il proprio modo di vedere il mondo e il proprio modo di rapportarsi al mondo, è prevedibile: e che questo miglioramento del modo di pensare e di vivere incrementi il proprio ben-essere sarà altamente probabile. Sarà un effetto collaterale desiderabile, ma un effetto collaterale: non il fine principale, né ancor meno esclusivo, della consulenza filosofica.
Augusto Cavadi
Filosofo consulente
www.augustocavadi.com