Deficit dell’attenzione ed iperattività, consigli per i genitori
Un recente studio pubblicato su Jama Pediatrics descrive un rilevante aumento delle diagnosi di Adhd (Deficit dell’Attenzione e Disturbo dell’Iperattività) tra gli under 18, con un incremento del 24 per cento negli ultimi 9 anni. La ricerca ha preso in esame 850 mila bambini tra i 5 e gli 11 anni che si sono rivolti al Centro Kaiser Permanente della California della California del Sud.
I dati raccolti in Italia invece, a fronte di una ricerca capillare della Regione Lombardia, descrivono una prevalenza del disturbo acclarata intorno al 3,5 per mille, evidentemente inferiore alla media mondiale registrata. Un’epidemia, dunque, oppure un falso allarmismo da cui prendere le giuste distanze? Per rispondere a questo interrogativo dovremmo dunque comprendere in cosa si caratterizza il disturbo di Adhd e come eventualmente individuarne le peculiarità sintomatiche.
Secondo il Manuale Diagnostico Dsm-IV (American Psychiatric Association, 1994) gli aspetti tipici del comportamento caratterizzato da questo disturbo si suddividono in disattenzione, impulsività ed iperattività. Per disattenzione intendiamo la difficoltà a mantenere l’attenzione, commettendo frequenti errori e passando da un’attività ad un’altra con molta rapidità e poca funzionalità. Per impulsività intendiamo uno scarso controllo e regolazione di quelle attività che comportino una tolleranza alla frustrazioni, in attività del quotidiano come attendere il proprio turno, oppure non essere al centro dell’attenzione per un tempo più o meno congruo. Infine per iperattività valutiamo l’eccessivo livello di attività motoria o verbale. Atteggiamenti sintomatici sono quelli di non riuscire a rimanere seduti in classe, parlare in maniera frettolosa e apparentemente illogica.
La diagnosi di Adhd risulta molto complessa, spesso purtroppo errate a fronte del fatto che le evidenze sintomatologiche possono far riferimento a quadri diagnostici e clinici molto eterogenei. Il marchio di iperattività, spesso semplicisticamente apposto su un bambino, può tuttavia condurre, laddove esso non sussista, a conseguenze cliniche gravose per lo sviluppo psichico dello stesso.
Clinicamente infatti il bambino spesso “scarica” la tensione emotiva del proprio vissuto in una eccessiva motilità e disarticolazione del discorso, espressione di difesa contro affetti e tensioni incontenibili.
Cosa dunque può fare un genitore? Anzitutto risulta fondamentale osservare il comportamento del bambino, valutando insieme allo stesso le difficoltà che può ad esempio riscontrare all’interno del contesto scolastico e del rapporto tra i pari. Favorire un dialogo che renda conto delle emozioni vissute dal bambino, risulta sicuramente una modalità nuova e funzionale, prima di rivolgersi ad uno specialista per eventuale valutazione.
Esplorare dunque il mondo soggettivo del bambino, favorendo un contesto educativo e sociale favorevole, risulta fondamentale da parte del genitore, ma soprattutto delle istituzioni educative, al fine di poter favorire un’eventuale diagnosi, ma soprattutto una modalità funzionale per un possibile trattamento, nonché per un decorso positivo, che renda conto soprattutto di quelle che sono le realtà soggettive del bambino.