Giornata mondiale dell’autismo,
quali modelli terapeutici?
Il 2 aprile ricorre la Giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo, istituito dalle Nazioni Unite a partire dal 2007, al fine di far luce su questo tipo di disagio psichico, promuovendo la ricerca e il miglioramento dei servizi, contrastando la discriminazione e l’isolamento di cui sono spesso vittime i bambini e le loro famiglie.
Un dibattito ancora acceso, sull’eziopatogenesi, ma anche sulle forme trattamentali utilizzate nel lavoro sull’autismo; dibattito dal quale sembra essere esclusa la psicoanalisi, ad appannaggio quasi esclusivo dei metodi di condizionamento propri delle terapie cognitivo-comportamentali.
Lo stesso Istituto Superiore di Sanità ha elaborato linee guida nazionali per l’autismo, eleggendo il metodo ABA come unico metodo scientifico. Risulta quantomeno riduttivo l’elezione di un unico modello terapeutico, soprattutto a fronte della natura multifattoriale che sottende all’origine dell’autismo, e che ancora adesso risente di continue scoperte scientifiche. Una omologazione della pratica clinica, ci dovrebbe quantomeno interrogare sul ruolo della posizione soggettiva del paziente, evidentemente impoverita da pratiche di adeguamento a standard comportamentali.
A tal proposito, come riportato dal Centro Clinico Espressione – Consultorio di Psicoterapia Psicoanalitica e Istituzionale per l’Accoglienza e il Trattamento del Disagio Psichico – di Napoli, lavorare con l’autismo comporta “penetrare la corazza difensiva che appare imperscrutabile ed enigmatica”, cosa che “certamente non si può fare attraverso metodi pseudoeducativi la cui rigidità non fa altro che relegare il soggetto in una posizione d’oggetto. La comunicazione delle persone autistiche è deposta in tracce sulla carta, in gesti, in manipolazione di oggetti, in un linguaggio quasi preverbale: è necessario offrire loro un ascolto, anche tramite una presenza silente; dedicare uno spazio e un tempo che gradualmente diverranno un posto soggettivo; creare un campo di espressione che significhi, per l’analista, ciò che percepisce del loro mondo il più esattamente possibile”.
Una posizione dunque, quella psicoanalitica, che renda conto della singolarità del soggetto autistico, attuando una dinamica trasformativa, “in tal modo, quelli che sono comunemente considerati i ‘tratti tipici’ dell’autismo diverranno, per il soggetto, qualcosa che lo rappresentino e, per le persone del suo ambiente, non un’etichetta diagnostica ma una particolare modalità di espressione soggettiva con cui potersi e sapersi relazionare”.
La psicoanalisi diviene dunque necessaria, per apportare un punto di vista sicuramente radicato e valido all’interno della comunità scientifica, tale da permettere interrogativi anche all’interno delle istituzioni sanitarie pubbliche, che riducono cure e trattamenti fino al raggiungimento della maggiore età, lasciando le famiglie e i soggetti in un marasma trattamentale di cui ancora oggi, purtroppo, non si riesce a venire a capo.
La psicoanalisi dunque, sia a fronte delle trattazioni passate, sia per le ricerche attuali, rende conto di una posizione viva e attiva rispetto all’autismo, che non può essere messa a tacere, ma anzi andrebbe approfondita e valorizzata.