Angioedema ereditario, nuove armi
spezzano “la maledizione”
“Una maledizione di famiglia. È il pensiero che le persone affette da malattie rare come l’angioedema ereditario rischiano di portarsi dietro a lungo. L’idea di un qualcosa legato alla stirpe, di una colpa trasmessa”. Una visione letteraria, “suggestioni da romanzi come ‘La casa dei sette frontoni’ di Nathaniel Hawthorne, in cui i discendenti di una famiglia morivano in circostanze misteriose”.
Spezzare la maledizione, o meglio aiutare i pazienti a cancellare questa idea “e a vivere la malattia come un evento sfavorevole che è capitato”, oggi è diventato più facile “perché abbiamo una serie di farmaci che ci permettono di cambiare la vita e il destino di queste persone, nuove armi all’orizzonte e linee guida che ci permettono di gestire al meglio ogni malato”. E’ il quadro tracciato da Marco Cicardi, professore ordinario di Medicina interna all’università degli Studi di Milano, a capo dell’Unità complessa di medicina generale dell’Asst Fatebenefratelli-Sacco di Milano.
L’esperto fa il punto sulla patologia in occasione di un incontro dedicato alle malattie rare e organizzato con il contributo di Shire nel capoluogo lombardo. “Secondo stime, l’angioedema ereditario potrebbe colpire una persona su 50 mila – spiega Cicardi – Noi in Italia abbiamo fatto un censimento su 14 centri e i pazienti seguiti sono risultati 923, dato che ci fa calcolare una prevalenza di un paziente ogni 64 mila abitanti”. Persone che sperimentano una malattia ‘a episodi’, attacchi che arrivano all’improvviso: “Un edema può cambiare i connotati, gonfiare al punto da rendere irriconoscibili – descrive l’espero – Dura qualche giorno e poi si torna normali. Fino all’episodio successivo. Lo stesso capita nell’intestino che si gonfia al punto da provocare occlusione e l’evento più grave può essere l’ostruzione delle vie aeree”. La svolta è stata capire il meccanismo della malattia, l’origine della maledizione.
“Si è scoperto che una mutazione nel gene di C1 inibitore fa sì che questa proteina non ci sia o sia presente in piccole quantità, insufficienti per esercitare la funzione di controllo – prosegue Cicardi – Si attiva così un sistema particolare di difesa, una reazione che porta ad avere livelli 10 volte più alti di bradichinina”, liberata da un enzima che si chiama callicreina. Questo aumenta la permeabilità dei vasi e “genera il gonfiore, l’angioedema”. Un meccanismo che si può bloccare. “Il 2010 è stato un anno fortunato. Sul ‘New England Journal of Medicine’ sono stati descritti 3 approcci con 3 farmaci diversi”. E la ricerca non si ferma.
“Proprio ieri nella stessa rivista è stato pubblicato un articolo su un anticorpo monoclonale umano, lanadelumab, che si trova in questo momento in fase clinica III e che impedisce l’insorgenza dei sintomi” della patologia “legandosi e inibendo la callicreina plasmatica”, chiarisce lo scienziato che ha dedicato la quota maggiore della sua attività di ricerca all’angioedema ereditario. Fin da giovane, quando lavorava gomito a gomito con Angelo Agostoni, storico professore della Statale di Milano che nel ’73 descrisse la prima famiglia italiana con deficit ereditario di C1 inibitore. Oggi sono disponibili farmaci per la prevenzione e per il trattamento degli attacchi tipici della malattia.
“Le linee guida – continua Cicardi – ci dicono di trattare inizialmente i pazienti al bisogno prevedendo l’autosomministrazione di uno dei farmaci disponibili in caso di attacco, che nel giro di qualche ora dovrebbe bloccarsi. Alcuni pazienti con un numero alto di attacchi sono candidati alla profilassi con prodotti derivati dal testosterone o con infusioni 2-3 volte alla settimana della proteina mancante. La ricerca sta portando nuovi trattamenti, nuovi approcci alla profilassi, dalla somministrazione della proteina per via sottocutanea all’uso dell’anticorpo monoclonale. In questi pazienti la refrattarietà agli attacchi appare di lunga durata, si può arrivare anche alla soppressione completa”.
Tutto questo può avvenire solo dopo un momento cruciale per le malattie rare: la diagnosi. “Le cose stanno cambiando rispetto al passato – osserva Cicardi – Si riesce a ottenere una diagnosi anche nei primi mesi di esordio della malattia”, che nel 90% dei pazienti dà sintomi prima dei 20 anni. “Ma ci sono malati che ancora oggi aspettano 10 anni, un po’ per la scarsa conoscenza della patologia in quanto rara, e talvolta un po’ anche per il tentativo di coprirla”.
(Fonte: Adnkronos)