Allarme dei logopedisti: “Disabilità
in età scolare doppia negli stranieri”
Anche la scuola italiana è sempre più ‘multietnica’: secondo il Miur infatti gli studenti stranieri nel nostro Paese sono più di 800.000, di cui 300.000 tra i 6 e i 12 anni. Un dato importante e positivo, ma con alcune conseguenze cui bisogna porre molta attenzione: sempre il Miur, infatti, per il 2016/2017 ha registrato una percentuale di disabili stranieri pari al 9,4% degli alunni che frequentano i diversi gradi scuola primaria e secondaria. Una percentuale elevata, più che doppia rispetto agli studenti italiani (che non supera mai il 4%), che va ad incidere soprattutto sulle varie forme del linguaggio: disturbi dell’eloquio (come le balbuzie), disturbi della letto-scrittura, ipoacusie, ritardi cognitivi. In questo nuovo contesto, la figura del logopedista assume una posizione ancora più centrale ed il suo ruolo risulta molto più complesso: il primo ostacolo all’approccio terapeutico, infatti, può essere rappresentato proprio dalla lingua.
Per cui si rende necessaria la presenza di un interprete e di un mediatore culturale, per una prima valutazione e per la successiva presa in carico del piccolo paziente. Di altrettanta complessità può risultare anche la raccolta dei dati necessari per formulare una anamnesi corretta: spesso infatti i bambini stranieri sono migranti senza genitori. In Italia, secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite sono infatti 147 mila, cifra che ci vede quarti dopo Germania, Francia e Svezia; inoltre, solo nel 2017 sono state esaminate circa 81.500 domande di richiesta di asilo. Per cui spesso risulta impossibile risalire ai dati più semplici come età, scolarità, patologie pregresse e familiari. Diventa indispensabile, quindi, riadattare e rimodulare gli strumenti valutativi e riabilitativi sulla diversa lingua e sulla diversa cultura dei piccoli, vista anche la variabilità del concetto di riabilitazione che in alcune culture coincide quasi con un aspetto “magico” di guarigione. Su questo argomento, straordinariamente complesso ed attuale, è stato presentato un lavoro specifico, di cui si è parlato al XII Congresso della Federazione Logopedisti Italiani (FLI) che si è svolto a Palermo.
“Considerando i numeri allarmanti e tutte le problematiche connesse – spiega la presidente FLI, Tiziana Rossetto – l’approccio multiculturale e multiprofessionale diventa quindi la sola chiave di ingresso possibile per entrare in contatto, con rispetto, con la vita di questi bambini e conoscerne la storia, fatta di una propria cultura, lingua, credo religioso. Questo stesso approccio prevede infatti l’incontro, in una relazione di aiuto, tra due o più persone con background culturale ed etnie differenti e richiede la capacità di assumere competenze e abilità di aiuto multiculturali che devono integrare e supportare le proprie conoscenze e capacità”.
“La trasformazione dell’Italia in un Paese sempre più multietnico e multiculturale determina un aumento della domanda di salute da parte di persone portatrici di culture differenti – afferma Giuseppe Mancini, logopedista, autore della ricerca, e membro della Federazione Logopedisti Italiani. Già da molti anni nel nostro Paese sono stati organizzati modelli, servizi e percorsi di accoglienza con programmi di intervento che vanno dalla presa in carico all’educazione, riabilitazione e prevenzione dei disturbi della comunicazione. Nuove sfide attendono quindi il logopedista e tutte le figure professionali cui viene richiesta la capacità di progettare interventi riabilitativi con pazienti aventi un background culturale ed etnico diverso”.
“Il logopedista, inoltre – aggiunge Donatella Tomaiuoli, logopedista, co-autrice della ricerca e membro della Federazione Logopedisti Italiani – diventa una figura-chiave che deve facilitare i segnali di comunicazione e aiutare l’integrazione, in un’ottica transculturale ed in linea con il Codice Deontologico che specifica come l’intervento del Logopedista è rivolto alla persona che ne effettua la richiesta, in modo autonomo o per il tramite di chi ne tutela legalmente i diritti, senza discriminazioni di età, di sesso, di condizione socio-economica, di nazionalità, di razza, di religione, di ideologia, e nel rispetto, comunque della normativa vigente. Il nostro compito sarà ora di provare a tracciare un percorso che, indipendentemente dalla diagnosi, possa guidare i logopedisti alla più efficace presa in carico del ‘nuovo paziente’ e alla corretta scelta degli strumenti nel pieno rispetto della loro cultura e/o paese di provenienza”.
Questa nuova prospettiva terapeutica, così personalizzata, risulta distante anni luce da interventi standardizzati che mai come in questo caso si rivelerebbero del tutto inopportuni, oltre che inefficaci. Anche perché, se mal approcciate, queste problematiche rischiano di creare le premesse di un isolamento totale del bambino con gravi conseguenze legate alla mancata integrazione e alla permanenza ai margini della società, oltre al fatto che i disturbi del linguaggio potrebbero facilmente essere confusi e percepiti come “normali” difficoltà di apprendimento della nuova lingua.
“Generalmente occorrono 2 anni di permanenza in un Paese per raggiungere una buona capacità conversazionale – precisa la dr.ssa Rossetto – ma se dopo 6 mesi di permanenza in Italia il bambino non è per niente in grado di esprimersi in italiano, è necessario un approfondimento. Bisogna partire prestando attenzione innanzitutto a come il bambino parla nella sua lingua madre; per questo bisogna parlare con i genitori ed eventualmente coinvolgere anche interpreti che possano confermare o smentire le difficoltà. In caso affermativo, è di fondamentale importanza intervenire tempestivamente con un logopedista che faccia una attenta valutazione della situazione”.