Malattie rare

Immunodeficienze primitive,
le richieste di medici e pazienti

di oggisalute | 4 ottobre 2018 | pubblicato in Attualità
paziente_camice

“Ma di cosa stiamo parlando?”. Ai pazienti con immunodeficienze primitive (Ip), malattie rare causate da un difetto geneticamente determinato ai naturali meccanismi di difesa dell’organismo, capita di sentirsi fare questa domanda dai medici che “non hanno conoscenza di queste patologie”. La “molta ignoranza” delle figure sanitarie non specializzate in materia è la difficoltà più grande denunciata dai malati, secondo una survey condotta a settembre per sondare le opinioni di ‘camici e pigiami’ sulla terapia cronica sostitutiva con immunoglobuline – il “trattamento di elezione” nelle Ip da carenza di anticorpi – e sui bisogni insoddisfatti rilevati da medici e pazienti.

Una sorta di ‘doppia intervista’ che ha coinvolto 7 clinici specializzati in pediatria e nel trattamento delle Ip, e 9 pazienti o genitori di malati con diagnosi di Ip. I risultati sono stati presentati e discussi a Milano, durante la quarta edizione dell’evento ‘IGs DayBreak’ promosso da Shire. Sul fronte pazienti, emerge con forza la necessità di migliorare le attuali conoscenze sulle Ip all’interno della medicina di base. Per i malati sarebbe inoltre importante disporre, “almeno nei centri di riferimento, di équipe multidisciplinari” capaci di garantire un’assistenza a 360 gradi. Ancora, secondo i pazienti un’altra cosa che manca è “il supporto psicologico. Non è proprio previsto” e “tutte le paranoie che ti fai te le devi tenere”, osserva un interpellato convinto che un sostegno sarebbe utile soprattutto in età pediatrica, sia per il bambino sia per i genitori.

I malati auspicano poi campagne informative sulla loro patologia, sull’importanza di un’immunità di gregge che possa proteggerli dal rischio di infezioni potenzialmente letali (“Io mi sentirei di fare veramente una campagna megagalattica a favore dei vaccini”, propone un contattato) e sugli screening pre-vaccinali per scoprire eventuali Ip non diagnosticate. Infine, i pazienti segnalano “ancora situazioni in cui la gestione della terapia” è complicata da “trasferimenti o viaggi prolungati all’estero”. E rivendicano “la possibilità di un accesso ai farmaci più semplice o di modalità di somministrazione differenti”.

Alessandro Segato, presidente dell’Associazione immunodeficienze primitive (Aip), conferma l’esistenza di vuoti informativi sul territorio. “L’Aip – spiega all’AdnKronos Salute – si è prefissa nel tempo di fare dei corsi con specialisti ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta, per sensibilizzare sulla diagnosi precoce delle nostre malattie”. Perché se in genere nei bambini le Ip vengono riconosciute rapidamente, gli adulti scontano ritardi di 10-20 anni, con grave compromissione della salute e della qualità di vita. “Abbiamo avuto dei riscontri, ma qualche volta siamo rimasti un po’ delusi dalla partecipazione – confida Segato – perché le nostre sono considerate malattie molto rare, che un medico di famiglia nella sua carriera potrebbe vedere una o 2 volte al massimo”.

Le Ip “sono malattie rare – commenta Alessandro Plebani, direttore della Clinica pediatrica dell’Università degli Studi, Asst Spedali Civili di Brescia – e comunque sempre più frequenti rispetto a quanto si poteva pensare una volta. Sono infatti aumentate le metodiche che consentono di formulare una diagnosi più precisa da un punto di vista immunologico, ed è cresciuta la conoscenza da parte della classe medica” anche grazie all’impegno dell’Ipinet, l’Italian Primary Immunodeficiences Network, “con tutta una serie di riunioni organizzate sul territorio nazionale”. La conseguenza è che le Ip, almeno 300 disturbi in cui una parte del sistema immunitario è carente o non funziona bene, appaiono in continuo incremento: quasi ogni mese viene scoperto un nuovo difetto genetico riconducibile a un nuovo deficit immunitario.

Per quando riguarda le terapie, “con l’impiego delle immunoglobuline, inizialmente sottocute, poi intramuscolo, successivamente endovena e attualmente ancora sottocute – ricorda lo specialista – la qualità di vita di questi pazienti è significativamente migliorata e la mortalità si è significativamente ridotta”, se si considera che “prima dell’avvento della terapia sostituiva questi malati morivano verso la seconda o la terza decade di vita”.

“Nei pazienti con difetti della produzione di anticorpi – sottolinea Plebani – la terapia con immunoglobuline rappresenta la scelta di elezione”, un salvavita “come l’insulina per il diabete”. Il trattamento sostitutivo consiste nella somministrazione di immunoglobuline estratte dal plasma di persone sane, “processate in modo tale da evitare effetti avversi”. Può avvenire con infusioni per via endovenosa una volta al mese in ospedale, oppure per via sottocutanea a casa propria una volta alla settimana in linea generale (è infatti disponibile anche un prodotto sottocute a somministrazione mensile).

Cosa ne pensano i medici sentiti nella survey? La maggior parte ritiene le due modalità di somministrazione “equiparabili per efficacia”, ma esprime “la percezione che il trattamento sottocute sia meglio tollerato dai pazienti”. Per questo tendono a iniziare la terapia endovena, per poi proporre all’assistito il passaggio a quella sottocute se le sue condizioni lo permettono. Fra gli obiettivi dello ‘shift’ la volontà di deospedalizzare il malato e renderlo autonomo, o di soddisfare un’esplicita richiesta sua o del genitore. Anche i clinici individuano alcune aree di miglioramento: per esempio la formazione del personale coinvolto nell’addestramento dei pazienti alla somministrazione sottocute, la possibilità di disporre di strumenti da lasciare a malati e familiari, la messa a punto in futuro di prodotti che consentano di distanziare ulteriormente le somministrazioni.

E i pazienti? Tutti considerano il trattamento sottocute “un notevole vantaggio in termini di qualità della vita”, nonché “per ragioni organizzative e psicologiche”. Per la somministrazione endovena, invece, il maggiore svantaggio indicato è “la necessità di recarsi in ospedale per sottoporsi alle infusioni”. Anche perché “il rischio del ricovero in Day hospital in reparti non dedicati” viene additato come “problematico non solo da un punto di vista clinico (rischio di esposizione a infezioni), ma anche psicologico”.

“Il paziente preferisce stare a casa propria, sul proprio divano e curarsi nell’ambito familiare”, concorda Segato. Anche se “ogni malato è una persona a sé e c’è ancora chi desidera andare all’ospedale – puntualizza – tantissimi, la stragrande maggioranza, vogliono stare a casa”. In ogni caso, “noi come associazione diciamo da sempre che il paziente deve avere la più ampia scelta di terapie possibile – chiede il presidente Aip – e soprattutto i medici che fanno le diagnosi e approntano i piani terapeutici devono avere la più ampia scelta da poter proporre al paziente”.

Come sempre, infatti, la ricerca non si ferma e guarda al futuro. Sarà ancora la terapia sostitutiva? “Distinguerei a seconda del tipo di immunodeficienza – risponde Plebani – perché soprattutto per le forme combinate, cioè dove non vi è solamente un difetto dei linfociti B, ma anche un difetto dei T, le immunoglobuline servono come supporto a un trattamento più radicale come il trapianto di midollo osseo”. Tuttavia, “per quanto riguarda le immunodeficienze a prevalente difetto anticorpale, in cui le immunoglobuline rappresentano il trattamento elettivo che consente ai pazienti di condurre una vita abbastanza sovrapponibile a quella dei coetanei sani, penso che questo trattamento rimarrà quello di prima scelta ancora per parecchio tempo”.

“Certo si auspica sempre quello che può essere il meglio”, pertanto “si tratterà forse di provare a modificare le vie di somministrazione per rendere l’assunzione ancora più facile e meno dolorosa. E magari si tratterà anche di arrivare alla messa a punto di prodotti che contengano titoli anticorpali più elevati, tali da consentire un maggior effetto protettivo”. Ma la conclusione dell’esperto è che la terapia cronica sostitutiva con immunoglobuline, che ha alle spalle oltre 70 anni di storia, ha ancora davanti una lunga vita da vivere.

(Fonte: Adnkronos)

Lascia un commento

Protezione anti-spam *