Malattie cardiovascolari,
in Italia costano 21 miliardi l’anno
Le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte nel nostro Paese e “sono responsabili del 35% delle morti totali. Malattie ischemiche del cuore, cerebrovascolari, ipertensive, altre malattie cardiovascolari occupano le prime 5 posizioni. Non deve dunque sorprendere che i costi sanitari, diretti e indiretti, associati a tali patologie ammontino a circa 21 miliardi di euro l’anno. In particolare, i costi sanitari diretti, riconducibili per l’84% alle ospedalizzazioni, ammontano a 16 miliardi, quasi l’11% del bilancio totale della sanità in Italia”. Lo ha spiegato Francesco Saverio Mennini, professore di Economia sanitaria, direttore Eehta, Università Tor Vergata di Roma, tra i relatori del convegno ‘Nuove prospettive nella prevenzione secondaria cardiovascolare: focus sull’ipercolesterolemia’, promosso ieri a Roma da Forum Meridiano cardio. Gli ultimi dati Istat indicano in 220 mila i decessi in Italia per malattie del sistema circolatorio.
Accanto a una radicale modifica dello stile di vita, a partire “dalla cessazione del fumo, dall’adozione di un regime dietetico corretto e dalla pratica di attività fisica, è fondamentale l’intervento farmacologico mirato alla correzione del diabete, dell’ipertensione e dell’ipercolesterolemia – hanno evidenziato gli esperti – Per quest’ultima in particolare, numerosi sono gli studi che ne hanno evidenziato il ruolo cruciale nello sviluppo delle malattie cardiovascolari. In particolare, il colesterolo Ldl (C-Ldl) è riconosciuto universalmente quale fattore causale dell’aterosclerosi e del rischio di insorgenza di eventi cardiovascolari gravi. Studi dimostrano come una riduzione del C-Ldl di 39 mg/dL (1 mmol/L) si traduce in un calo del rischio di eventi cardiovascolari del 10% al primo anno, del 16% al secondo anno e del 20% dopo tre anni di trattamento”.
“Nonostante questi dati, la situazione reale purtroppo è molto lontana da quanto sarebbe auspicabile – hanno osservato gli specialisti – I dati relativi all’aderenza alla terapia ipolipemizzante indicano infatti valori estremamente bassi, che raggiungono il 45,9% nei pazienti a rischio molto alto e solo il 30,2% nei pazienti a rischio cardiovascolare medio”.
“Le evidenze scientifiche oggi ci dicono che il valore ideale di colesterolo, soprattutto nei soggetti a rischio molto alto, dovrebbe essere addirittura molto inferiore rispetto a quello attualmente raccomandato, con un vantaggio per il paziente in termini di risparmio di ictus, di ospedalizzazioni e di infarti – ha puntualizzato Pasquale Perrone Filardi, direttore della Scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’università Federico II di Napoli – La realtà è che il 50% dei pazienti che hanno avuto un evento cardiovascolare non assume farmaci per il controllo della dislipidemia, con una discrepanza tra quello che la scienza ci dice e quello che si registra nella pratica clinica”.
“Quello della insufficiente gestione dell’ipercolesterolemia, condizione da considerare un fattore causale modificabile del rischio di andare incontro a un secondo evento cardiovascolare, è uno dei bisogni disattesi nei pazienti in prevenzione secondaria – ha suggerito Marcello Arca, direttore della Uos Centro arteriosclerosi, Centro di riferimento regionale per le malattie rare del metabolismo lipidico del Policlinico Umberto I e segretario nazionale Sisa – Si stima che in prevenzione secondaria poco meno del 50% dei pazienti raggiunge il target dei livelli di colesterolo Ldl-C e possiamo sicuramente affermare che una terapia inadeguata si riflette negativamente sul controllo dell’ipercolesterolemia, con un rischio aumentato di eventi cardiovascolari successivi”.
Gli interventi dei relatori hanno ribadito, infatti, che i pazienti che hanno già subito un evento cardiovascolare “presentano un rischio più elevato di averne di nuovi, in particolare nel corso del primo anno. Una situazione da correggere urgentemente, con un intervento sulla classe medica, ma anche – hanno evidenziato le relazioni – con un’opera di informazione diretta dei pazienti che devono prendere coscienza dei vantaggi in termini di quantità di vita che possono ricavare da una aggressione più intensa dei fattori di rischio cardiovascolare”.
A conferma dell’attuale scenario vi sono i risultati di un recente studio condotto da Mennini che ha verificato i livelli di colesterolo Ldl-C raggiunti nelle popolazioni a rischio. “I risultati evidenziano come la quota di pazienti non a target sia molto alta, pari al 65,1% per gli utilizzatori di statine a bassa e moderata intensità e al 53,9% per gli utilizzatori di regimi a elevata intensità – ha sottolineato l’autore della ricerca – Ciò dipende anche dal fatto che una quota di questi pazienti risulta trattata in maniera ‘subottimale’. Anche nel caso di un trattamento ‘ottimale’, più della metà dei soggetti non raggiunge i livelli target di Ldl-C definiti dalle linee guida”.
Le ragioni dell’inadeguata azione ipocolesterolemizzante in prevenzione secondaria sono molteplici. Senza dubbio però un fattore fondamentale – è stato rimarcato dagli specialisti – è rappresentato dalla scelta della terapia più adeguata. “Nonostante gli inibitori di Pcsk9 rappresentino un’opportunità terapeutica di riconosciuta importanza, il loro utilizzo è ancora limitato – ha confermato Federico Spandonaro, professore di Economia sanitaria dell’Università Roma Tor Vergata di Roma e presidente Crea sanità – Solo il 13-14% dei pazienti eleggibili all’utilizzo di questi farmaci, è stato effettivamente sottoposto a questa terapia”.
Le ragioni di questo sottoutilizzo sono da ricercare in una serie di fattori, riconducibili ad esempio all’iter burocratico legato ai piani di rimborsabilità. “Per migliorare questa situazione – ha proposto Perrone Filardi – è auspicabile sviluppare un collegamento fra i centri prescrittori abilitati a valutare i criteri di rimborsabilità e a formulare i piani terapeutici nel singolo paziente, e i colleghi che operano sul territorio in modo da creare dei percorsi diagnostico-assistenziali”. Quello dei percorsi diagnostico terapeutico assistenziali è un tema considerato fondamentale anche dai pazienti. “Servono dei percorsi reali, integrati fra i diversi servizi presenti sul territorio – ha rimarcato Sabrina Nardi, direttore Coordinamento nazionale delle associazioni di malati cronici di Cittadinanzattiva – è un bisogno molto specifico nell’ambito cardiovascolare. E’ come se i pazienti si perdessero in una rete assistenziale dalle maglie troppo larghe”.
(Fonte: Adnkronos)