Vita e lavoro “rovinati”
per gli operatori vittime di violenze
Il 93% degli operatori sanitari nei pronto soccorso e nei servizi di psichiatria, che è stato vittima di aggressioni fisiche e verbali, vive sulla propria pelle le conseguenze di queste violenze: aumentano le cattive abitudine come il fumo e si tende a mangiare di più, crescono i disturbi del sonno e l’esaurimento emotivo, si modificano le relazioni sociali e cala la performance sul lavoro. E’ quanto ha rivelato uno studio condotto sul pronto soccorso e sul Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) del Policlinico Umberto I di Roma curato dal medico e psichiatra Marina Cannavò. “Questo studio mette in evidenza che la violenza è un fattore chiave di rischio, predittore di stress e di eventuali disturbi psichiatrici negli operatori sanitari che operano in ambienti ad alto rischio”, ha spiegato Cannavò.
Oltre il 60% degli intervistati ha riportato più di un effetto (69% delle donne) e una riduzione del benessere psico-fisico: irritazione, rabbia, senso di impotenza, delusione e paura. Per il 51% le aggressioni impattano sugli stili di vita come l’aumento dell’uso di tabacco o di assunzione di cibo o disturbo del sonno. Per il 54% degli intervistati le violenze hanno effetti anche sulle abitudini lavorative con l’emergere della demotivazione, della riduzione delle performance e con le assenze dal lavoro. In generale lo studio ha evidenziato come il 96% degli operatori ha assistito ad almeno un episodio di violenza e l’87% ne ha subito almeno uno.
La ricerca è stata condotta su 323 operatori dei circa 400 presenti in servizio (infermieri, medici, ausiliari, tecnici delle professioni sanitarie, altro tipo di dirigenti, amministrativi e primari o coordinatori). La raccolta dei dati è stata eseguita con un’intervista svolta singolarmente per ogni partecipante e la somministrazione del questionario sulla violenza in sanità (Qvs) e del questionario sulla percezione dello stress del lavoratore (Spqr). Rimane una zona d’ombra sulle violenze ai danni degli operatori, evidenziata dall’indagine: il 56% non segnala e l’89% non denuncia le aggressioni.
“Quasi tutti gli operatori sanitari hanno assistito spesso alle aggressioni, più della metà ha subito spesso dai pazienti e/o familiari e un terzo dai colleghi – ha osservato Cannavò – L’intensità del fenomeno sembra correlata alla qualifica professionale, al ruolo ricoperto nell’ambito dell’organizzazione e al luogo di lavoro, mentre si mostra indipendente dall’anzianità di servizio. Quasi tutti gli operatori hanno riferito conseguenze multiple sulla sfera emotiva in particolare le operatrici e coloro che hanno subito frequenti episodi di violenza. Un terzo ha riferito più di un effetto sugli stili di vita, come l’aumento del consumo di tabacco, di cibo, disturbi del sonno e modifiche nelle relazioni sociali fino all’isolamento e all’evitamento di alcuni luoghi”.
“Tutti gli operatori, compresi quelli che affermano di non aver subito aggressioni, durante le interviste individuali hanno riferito la sensazione di non sentirsi apprezzati né dai pazienti né dai familiari – ha aggiunto Cannavò – spesso hanno ricevuto commenti negativi e lavorano con la paura costante di essere aggrediti dai pazienti nervosi e spesso violenti o con storie pregresse di violenza. A queste problematiche si aggiungono le eccessive responsabilità associate alla mancanza della libertà decisionale e di supporto da parte dei colleghi e del coordinatore. Questi risultati confermano le teorie di Karasek sull’importanza di considerare la presenza di un’autonomia decisionale e di un supporto sul lavoro per evitare lo stress e l’insoddisfazione lavorativa degli operatori. La causa primaria che determina lo stress è ‘il fattore umano’, come afferma Karasek, in particolare le relazioni con il paziente e i suoi familiari e le relazioni con i colleghi”.
“Infatti la mancanza di una buona comunicazione tra gli operatori e i pazienti e i familiari e i conflitti con i colleghi, il non sentirsi apprezzati dagli utenti e supportati dai colleghi, le preoccupazioni relative al reddito non adeguato a soddisfare le proprie necessità e quelle della famiglia, così come è messo in evidenza dai risultati dello studio, riducono l’autostima e minano lentamente il benessere dell’operatore – ha osservato la psichiatra – Questi dati sono in accordo con la teoria di Siegrist che mostra lo sbilanciamento tra lo sforzo e l’impegno nel lavoro rispetto alle ricompense ricevute. In merito alla prevenzione e alla gestione della violenza, la maggior parte degli operatori di entrambi i sessi che hanno subito più frequentemente episodi di violenza ritiene utile una formazione sul fenomeno per modificare le difficoltà presenti sul lavoro. Infatti solo la metà degli operatori riesce a riconoscere i segnali precoci delle aggressioni, meno della metà riesce a bloccare l’escalation e la modalità singola più frequentemente adottata è quella dell’evitamento del coinvolgimento in una risposta diretta con l’aggressore”.
“Le operatrici sembrano più incerte rispetto agli operatori sia nel riconoscimento che nella gestione degli episodi di violenza. In merito alle condizioni di lavoro, la maggior parte degli operatori segnala la presenza di numerosi fattori di rischio a livello ambientale e organizzativo che influiscono sulle manifestazioni della violenza – ha evidenziato Cannavò – In particolare, la non corrispondenza della qualità organizzativa e strutturale degli ambienti alle aspettative dei pazienti o familiari, i tempi di attesa e la mancanza di informazioni sulle modalità di fornitura delle prestazioni in emergenza, le aspettative deluse dei pazienti e familiari e le difficoltà di comunicazione tra operatori e pazienti”.
“Alla luce dei risultati descritti, è necessario attivare un programma per la prevenzione e la gestione della violenza e dello stress, un trattamento e un supporto psicologico per coloro che riferiscono di sentirsi stressati o sono a rischio di stress a causa delle aggressioni subite – ha concluso l’esperta – Infatti la presenza di conseguenze emotive e psicologiche e l’insoddisfazione sul lavoro incidono sulla qualità di vita degli operatori aggrediti, sulla loro salute e sulla riduzione della qualità delle cure per i pazienti, aumentando il rischio di errori, di infortuni e di assenteismo sul lavoro”.
(Fonte: Adnkronos)