Covid

Specialisti in prima linea: “Sapevamo
che non era una semplice influenza”

di oggisalute | 17 febbraio 2021 | pubblicato in Attualità
Codogno_ospedale_fg

“Non è stato facile e non lo è tuttora”, esordisce il direttore socio sanitario dell’Asst di Lodi, Paolo Bernocchi. E’ il giorno in cui gli anestesisti rianimatori guardano ai mesi trascorsi da quella notte fra il 20 e il 21 febbraio 2020, data in cui l’Italia scopriva a Codogno, in provincia di Lodi, il suo paziente 1 di Covid. E’ passato un anno da allora. Un anno in trincea per le terapie intensive del Paese. Non ultima spiaggia, ma “prima linea”. E proprio nell’ospedale di Codogno la società scientifica Siaarti (Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva) si è voluta riunire per una riflessione sulla pandemia, sui passi avanti fatti dal febbraio 2020 quando la Lombardia si è trasformata nella prima frontiera di lotta a Sars-CoV-2, scoprendo dall’oggi al domani che il virus era già in casa. Numeri incerti sui letti e le risorse disponibili nei reparti, una strategia e linee guida tutte da inventare: questa la situazione quando tutto è cominciato.

Oggi la Siaarti guarda al futuro e lancia un progetto: un registro che permetta di monitorare le risorse a disposizione, i risultati che si ottengono. Per essere “pronti” anche all’impossibile. Quello a cui ha creduto la stessa Annalisa Malara, l’anestesista 38enne che il 20 febbraio 2020 a Codogno, vedendo un suo coetaneo con “polmonite devastante” non rispondere alle cure e “peggiorare inesorabilmente” a una velocità insolita, ha deciso di forzare il protocollo e disporre il tampone rivelatore.

“Era una possibilità che ho ritenuto doveroso indagare – racconta oggi – perché se si fosse rivelata corretta ero consapevole che avrebbe avuto un impatto grande sul mio paziente e su gran parte della popolazione, come poi è stato. Noi anestesisti rianimatori siamo chiamati ad agire su pazienti che hanno bisogno di supporto per una o più funzioni vitali, in situazioni critiche in cui non c’è tempo da perdere e non possiamo permetterci di ritardare una scelta diagnostica”.

E’ andata così per Mattia Maestri, paziente 1, oggi tornato alla sua vita con la moglie (allora incinta) e la sua bimba. I racconti degli specialisti si assomigliano: “Il 21 febbraio riceviamo la richiesta di aiuto di Codogno e da lì abbiamo iniziato a correre. E non ci siamo più fermati. Sulla strada che separa questi due comuni lombardi è nata la prima parte della rete”, ricorda Francesco Mojoli, direttore della Scuola di specializzazione in Anestesia, rianimazione e terapia intensiva e del dolore, Università di Pavia.

“La prima esigenza è stata di chiudere Codogno, farci aiutare da Pavia e arroccarci su Lodi, perché un gran numero di anestesisti erano o positivi o contatti di colleghi positivi e domenica 23 febbraio eravamo con carta e penna a ridisegnare l’ospedale, abbiamo dovuto immaginare nuovi percorsi”, aggiunge Gianluca Russo, dirigente Anestesia, Rianimazione e Terapia del dolore Ospedale Maggiore Lodi/Codogno. “Altri grandi anestesisti sono venuti da noi nella nostra Rianimazione a rendersi conto delle necessità in loco e a darci una mano in termini di trasferimenti dei pazienti. Siamo riusciti a non soccombere e non siamo stati sopraffatti dal senso di impotenza perché siamo stati aiutati. Ora viviamo una fase diversa in cui stiamo cercando noi di dare aiuto” ad altre strutture e in aree oggi più in difficoltà.

Nei giorni successivi allo scoppio dell’emergenza “si è deciso inizialmente di scegliere un numero limitato di ospedali hub”. Presto quei primi 130 letti messi in campo non sarebbero bastati più. “Avevamo capito da subito che era grave – osserva Giacomo Grasselli, coordinatore della Rete Ti Regione Lombardia – Il paziente 1 era un giovane senza particolari malattie”, in fin di vita, “che non aveva una storia di viaggi ma era un caso autoctono. E poi il giorno successivo i positivi erano già 36, senza legame con lui. Questo ci ha fatto capire che il numero di infetti che circolavano forse da mesi in Lombardia era più grande e che il fenomeno avrebbe assunto le dimensioni che poi abbiamo visto”.

“Sapevamo, a dispetto di chi diceva il contrario, che non sarebbe stata una semplice influenza”, riflette Antonio Pesenti, direttore del Dipartimento di Uoc Anestesia-Rianimazione del Policlinico di Milano e coordinatore delle terapie intensive nell’Unità di crisi della Regione Lombardia per l’emergenza Covid. “Eravamo pronti? Non lo so. Ci siamo trovati con tutti i primari in Regione, abbiamo fatto dei piani che sono stati accettati. Quando i tecnici parlano con persone responsabili e propongono cose ragionevoli si riesce a lavorare. E alla fine durante la prima ondata abbiamo assistito nelle terapie intensive lombarde 4.900 pazienti con esiti simili o migliori rispetto a quelli di altri Paesi venuti dopo di noi”.

Pesenti fa un accenno anche al ruolo degli specializzandi (“li abbiamo invitati a comportarsi da medici e questo hanno fatto”, dice) e sottolinea: “La terapia intensiva è stata, è e resterà molto importante”. Una lezione per il futuro? “Si deve considerare la possibilità di essere costretti a lavorare in una condizione di emergenza umanitaria. Credo che ci siamo andati vicini, specie in aree come Bergamo o Brescia, dove il territorio ha patito molto la malattia”, conclude l’esperto. “Abbiamo dato il massimo in un anno davvero impegnativo e vissuto sempre in trincea, senza risparmiarsi”, evidenzia Flavia Petrini, presidente Siaarti. “Due progetti ci stanno a cuore oggi. Si tratta del Registro-cruscotto delle terapie intensive italiane e del progetto Giorgio’s, iniziativa di raccolta dati volta a descrivere realtà strutturale ed operativa dei blocchi operatori degli ospedali italiani”.

Il primo viene avviato da Siaarti per creare uno strumento unico di rendicontazione fra le Regioni e i centri ospedalieri dotati di reparti di Terapia Intensiva. Per consultazione e monitoraggio in tempo reale, trasparenza e aggiornamento quotidiano, ottimizzazione del sistema per la messa a regime degli investimenti strumentali e strutturali. Il progetto Giorgio’s (Gruppo italiano organizzazione e ricerca gestione integrata operativa) consentirà, se implementato su ampia scala, di capire qual è la riduzione/aumento delle attività chirurgiche nelle varie fasi di un evento come la pandemia in corso, e in tempi ‘normali’. Perché, conclude Petrini, è cruciale “poter disporre di quei dati necessari per una programmazione corretta delle attività” del Ssn.

(Fonte: Adnkronos)

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